Conflitto israelo-palestinese: rifugio in un contesto acritico e storico per conoscere e pensare liberamente. La nascita del nazionalismo palestinese.

Conflitto israelo-palestinese: rifugio in un contesto acritico e storico per conoscere e pensare liberamente. La nascita del nazionalismo palestinese.

Il fondamento che fa da catalizzatore allo sviluppo del conflitto in Palestina può essere ricercato nella diffusione dei movimenti nazionalisti, sorti nell’Europa occidentale in seguito alla nascita della forma contemporanea di Stato, sullo sfondo dell’imperialismo che a causa della diffusione di idee di stampo nazionalista subisce a sua volta importanti cambiamenti. Queste idee trovano ispirazione nelle teorie dell’Illuminismo europeo del XVIII sec. e in quelle del movimento romantico che, nato per contrapporsi all’Illuminismo, diffonde alcune credenze tra cui quella delle comunità omogenee e ben radicate in determinati territori.

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Il sionismo e il nazionalismo palestinese possono essere compresi solo se si tiene presente da un lato il sorgere di un mondo di Stati-nazione come modello di organizzazione delle comunità politiche, dall’altro l’esportazione di questo modello nei territori dell’impero. Gli imperi premoderni e dell’inizio dell’età moderna raramente interferivano nella vita dei propri sudditi, si preoccupavano piuttosto di riscuotere tasse e tributi tramite élite imperiali che spesso parlavano una lingua diversa e professavano una religione diversa e di mantenere la pace nei territori dell’impero. Sulla spinta della diffusione mondiale del sistema di Stati-nazione, alcune élite imperiali per accrescere la propria potenza e difendersi dall’imperialismo europeo finiscono per adottarne il modello ed è il caso dell’Impero ottomano, che comprendeva il territorio della Palestina, dell’impero asburgico (austro-ungarico 1867) e di quello russo in cui viveva la maggior parte degli ebrei. In questi cambiamenti risiedono gli ingranaggi che conducono alla nascita di un nazionalismo ebreo e di un nazionalismo palestinese.

La data che inaugura il nuovo corso degli eventi in Palestina è il 1516 quando gli ottomani iniziano a conquistare il Medio Oriente, creando un impero che sarebbe durato fino al 1918. L’antecedente è la conquista nel 1453 di Costantinopoli, ribattezzata Istambul e capitale dell’impero bizantino erede dell’impero romano. Tra il XVI secolo e la prima parte del XVIII secolo l’Impero ottomano mantiene le caratteristiche degli imperi moderni, un impero islamico (sunnita) retto da un sultano la cui legittimazione dinastica poggia sulla religione e governato in base alla legge islamica (shari’a), accanto ad altre fonti di diritto; quello consuetudinario e quello derivato dalle pronunce imperiali (Kanun). Il sultano poteva far valere anche il titolo di califfo, ossia capo supremo dell’Islam e difensore della fede. La presenza nell’Impero di tre città sante la Mecca e Medina in Arabia e nella regione della Giudea di Gerusalemme, aumenta l’interesse dell’élite imperiali nella Palestina. Si deve tuttavia tener presente che all’epoca la pratica religiosa nella maggior parte del mondo islamico era variabile ed è solo in età contemporanea che subentra una rigida ortodossia islamica e si stabilisce uno “stile di vita islamico”.

Per comprendere i profondi mutamenti sociali, politici ed economici intervenuti nella formazione dell’idea di nazione in Palestina è necessario valutare i cambiamenti che subisce al suo interno un’economia di mercato (soprattutto cotone), che si espande a tal punto da integrarsi in un’economia mondiale e quindi soggetta al ciclo altalenante del mercato internazionale, nel periodo che si suole definire “lungo XIX secolo” (1789-1914). In generale il coinvolgimento del Medio Oriente nell’economia globale corrisponde all’avvio della Rivoluzione industriale in Europa occidentale e subisce un incremento nel periodo di stabilità seguito alla caduta di Napoleone nel 1815.

Per risalire ai cambiamenti politici occorre far luce sull'”intermezzo” egiziano in Palestina (1831-1841) e il successivo ripristino del potere ottomano. Ad introdurre nella regione un efficiente e moderno apparato di governo, istituzioni e strutture proprie di uno Stato moderno è il “signore della guerra” e capo dell’Egitto Mehmet Ali che, in cambio dell’aiuto fornito agli ottomani in Grecia, riesce ad accaparrarsi un vasto territorio: Palestina, Siria e Libano; la “Grande Siria”. Quando gli ottomani, con l’aiuto dei britannici, ristabiliscono il loro potere in Palestina danno luogo ad una nuova fase di governo caratterizzata questa volta da un controllo più rigido del territorio. Fa da spartiacque al nuovo corso degli eventi la promulgazione nel 1858 di una nuova legislazione che riconosce ufficialmente la proprietà privata della terra (miri), prima giuridicamente proprietà dello Stato. In Palestina l’organizzazione sociale era complessa: il nucleo della società era costituito dal villaggio, fondato sulla famiglia, ogni villaggio era composto da quattro o cinque clan a capo dei quali c’era un anziano uno dei quali veniva scelto come capo del villaggio. È comprensibile come in questa realtà riscuotere i tributi fosse alquanto complicato, per cui la legislazione di fatto proibisce la proprietà collettiva e impone la registrazione individuale della proprietà, ma lascia allo Stato il diritto di regolarne la trasmissione e la destinazione d’uso. Questo sistema comporta la formazione di una nuova e più rigida stratificazione sociale; a volte il capo del villaggio registrava la terra a proprio nome, altre volte i contadini non potendo pagare la tassa di proprietà cedevano la terra agli usurai o ai notabili della città e altre volte ancora le terre venivano accaparrate dai membri dei consigli elettivi, creati per coordinare i funzionari nominati da Istambul. Per i notabili e i membri dei consigli si trattava di un arricchimento personale, di acquisire posizioni privilegiate e quindi di potere all’interno della società palestinese, posizioni che mantengono e “sfruttato” negli anni tra le due guerre, ma quello che bisogna tenere bene a mente è il fatto che si trattasse per lo più di proprietari terrieri assenteisti, per cui quando i rappresentanti del Fondo nazionale ebraico si propongono come acquirenti, non hanno problemi a vendere le proprie terre. Se è vero che questi mutamenti all’interno della società palestinese rallentano la nascita di un movimento nazionale uniforme, è anche vero che in qualche modo alimentano un sentore di appartenenza come contraccolpo. L’esito innescato dal rescritto Gülhane Hatt-i Sharif del 1839, che segna l’inizio delle riforme, e dal decreto Islahat del 1856, ne da conferma. Avendo lo scopo di riequilibrare i rapporti tra i sudditi e tra questi e l’Impero e promettendo di garantirne uguali diritti indipendentemente dalla religione, questi decreti danno impulso alla società palestinese per maturare un senso di appartenenza comune in quanto cittadini di uno stesso territorio, sottoposti alle stesse leggi e fedeli allo stesso Impero. Cosicché negli anni Quaranta del XX secolo, i contadini quando chiedono protezione e giustizia al governo di Istambul si richiamano alle norme stabilite nel decreto del 1839.

Fonti: Tutto parte da studi e ricerche che feci più di dieci anni fa sulla “questione ebraica”, esaminata dal punto di vista filosofico, storico e teorico politico sulla scorta dei rapporti intercorsi tra Hannah Arendt e Karl Jaspers. La Storia non è un rincorrersi di date, ma sembra non interessi più a nessuno, forse neanche a me che ho guardato per troppo tempo altrove. Si guardi a James L. Gelvin ” Il conflitto israelo- palestinese. Cent’anni di guerra”.

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